La
società del servizio pubblico radiotelevisivo che paga la pubblicità al sito di
un movimento politico. Tradotto: la Rai che sborsa soldi per comparire nei
banner pubblicitari del blog di Beppe Grillo, lo stesso leader del Movimento 5
Stelle che, tra le sue battaglie, ha proprio la cancellazione del canone. A
risollevare il caso quest’oggi è stato Renzi in persona: «Ho letto che la Rai
ha dato dei denari al sito di Grillo. Immaginate cosa sarebbe successo se
avessero dato soldi a noi...», ha provocato il premier dal palco della
direzione nazionale del Pd. La notizia è subito rimbalzata dalle parti di viale
Mazzini: «Non ne so nulla, mi informerò», dice il direttore generale della Rai,
Luigi Gubitosi. Subito, e stizzita, è arrivata la replica dei Cinque Stelle:
«Tutta colpa del servizio di advertising di Google, la Rai non ha comprato
direttamente pubblicità nel blog».
L’inghippo
è presto spiegato. La Rai per farsi pubblicità su Internet ha usato il servizio
di advertisement di Google. Il gigante di Mountain View gestisce con dei
prodotti (fra cui AdSense, AdWords, Google Analytics) i banner pubblicitari che
compaiono sui diversi siti del web. In pratica, come giustamente sostiene Carlo
Sibilia, membro del direttorio M5S: «Beppe Grillo non ha preso soldi dalla Rai,
ma si trattava di un AdSense irrisorio».
Però,
c’è un però. Un’azienda che fa pubblicità sul web può decidere in quali siti
non comparire, come
specifica Google. In pratica, la Rai (servizio pubblico, meglio ricordarlo)
avrebbe potuto evitare di finire sul blog del leader di un partito (il
Movimento 5 Stelle). «A che serve avere 300 dirigenti - ha
denunciato la deputata del Partito democratico Lorenza Bonaccorsi - se poi
si verificano queste leggerezze?». Rispondendo all’interrogazione della stessa
Bonaccorsi, e componente della commissione di Vigilanza Rai, Viale Mazzini ha
ammesso l’errore e si è impegnata «a fornire indicazioni correttive a Google
per evitare che si ripetano episodi di questo tipo». Niente più banner sul blog
di Grillo, dunque. Una «leggerezza», insomma. Che però potrebbe essere costata
cara anche agli italiani. Quelli che il canone lo pagano ancora.
mader
Davide Lessi
per La
Stampa
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