È
paradossale, dato che si tratta del lancio di una consultazione online. Ma con
il Comunicato
Politico numero 55 Beppe Grillo certifica, più che la sua
abdicazione o quasi dal MoVimento 5 Stelle (“sono
stanchino”), il fallimento dell’idea di democrazia digitale di
Gianroberto Casaleggio. È quella “l’idea
originaria” del movimento che in queste ore tanti attivisti, delusi
dall’espulsione
di Paola Pinna e Massimo Artini, sostengono di voler difendere.
Il
problema è che quell’idea, la “iperdemocrazia“,
non poteva funzionare. E non ha funzionato. Nella sua versione più pura, quella
teorizzata da Casaleggio appunto, significava la realizzazione pratica e concreta
dell’uno vale uno:
c’è 1) un insieme di cittadini – idealmente l’intera popolazione votante (la
traduzione corretta, credo, dei proclami di Grillo di volere il
100% dei consensi); 2) una piattaforma informatica su cui metterli
in discussione, a partire dalla votazione degli eletti; 3) un gruppo di eletti,
che non sarebbero tuttavia che portavoce della volontà degli elettori, espressa
in rete e per loro vincolante (“terminali
della Rete“); 4) una diarchia di “non-leader”,
a garanzia del rispetto delle regole minime stabilite da un “non-statuto” – pena
l’espulsione. Nessuna differenza gerarchica: il voto di un militante e di
Grillo dovrebbero avere lo stesso peso.
Dovrebbero.
Nella prassi è andata diversamente, ma il punto è che non si capisce come
avrebbe potuto essere altrimenti. Come, in altre parole, invece della realtà
quotidiana del compromesso con un sistema di democrazia rappresentativa avrebbe
potuto affermarsi quell’utopia slegata da ogni contesto istituzionale – e irrispettosa
di ciascuna delle tante critiche che quell’utopia ha già ricevuto nella storia
del pensiero politico negli ultimi vent’anni in particolare.
Ora,
come da tempo, le polemiche si addensano sul quarto punto: sui margini di
discrezionalità riservati in realtà dai non-leader a se stessi nel nome della
loro funzione di “garanzia“.
Margini che ora vengono in qualche modo ridiscussi: “il M5S ha bisogno di una struttura di
rappresentanza più ampia”, scrive Grillo nel comunicato odierno,
ammettendo implicitamente – ed è questo un errore comunicativo e politico che
rivela tutta la sua confessata stanchezza, forse – che fino a oggi non era
nelle mani della rete “sovrana”
(cit. Roberta Lombardi), ma nelle sue e in quella di pochi altri.
Insomma,
non dovevano esserci livelli intermedi tra cittadini e decisione politica.
L’unico mediatore doveva essere “la
Rete“. E invece il risultato, nei fatti, è stato che il movimento è
stato retto nelle sue linee politiche di fondo da un duo di non-leader, dal
loro (misterioso e ripetutamente criticato) staff, da un inner circle di
comunicatori di vario tipo – ed è un primo strato. Oggi se ne vorrebbe
aggiungere un secondo, di intermediazione tra questa non-leadership e i
non-parlamentari (i “cittadini-portavoce”).
A
questo servono le cinque persone, i cinque eletti più eletti di altri (dato che
li ha scelti Grillo tra i fedelissimi e “la
Rete” può solo “certificare”
o respingere), che “si
incontreranno regolarmente con me per esaminare la situazione generale,
condividere le decisioni più urgenti e costruire, con l’aiuto di tutti, il
futuro del MoVimento 5 Stelle”. È la chiara ammissione di una
sconfitta di metodo. Un metodo che del resto lo stesso Grillo ha violato
espellendo Pinna e Artini facendo precedere il voto online a una decisione
maggioritaria dei gruppi parlamentari. Eppure non risultano procedure di
espulsione per l’ex-comico, che può anzi ribattere chiedendo le modifiche che
più gli aggradano al cuore del movimento: le sue regole di convivenza e
deliberazione.
Ma
il problema non è Grillo: il problema è pensare che un sistema simile possa
stare in piedi. Oltre al quarto punto, per restare alla schematizzazione
proposta, andrebbero discussi anche gli altri tre. Siamo sicuri che senza
questa gestione autoritaria il movimento sarebbe davvero andato diversamente,
come sostengono ai quattro venti epurati e critici interni o non più interni
del movimento stesso?
Davvero
senza la presenza invadente di Grillo oggi questi “ragazzi dal volto buono” sarebbero
magicamente in grado di auto-organizzarsi, farsi campagna elettorale,
guadagnare consensi significativi, gestire in modo collaborativo progetti di
legge e decisioni interne? La storia, litigiosa e piena di scazzi – mi si
perdoni, è la parola giusta – dei meetup e dei gruppi locali sembra dire
l’esatto contrario. E, lo scrivo dopo aver studiato per
due anni piattaforme di partecipazione online, non sono a conoscenza
di un software in grado di produrre, da solo, democrazia per un numero di
utenti elevato quanto richiesto dal successo del M5S. Anzi, ho finito per
convincermi che nessun software possa produrre da solo democrazia, per pochi o
per tanti.
Insomma,
da un lato è ridicolo pensare – come pare
faccia Grillo – che i click sul blog possano misurare lo stato di salute del
movimento o dirimere le questioni decisive, e insieme quelle di tutti i giorni,
in una democrazia avanzata con sessanta milioni di anime. Ma dall’altro credo
sia altrettanto ingenuo pensare che il problema stia nell’esercizio di autorità
da parte di Grillo e non nel sistema ipotizzato in sé, nell’idea della
disintermediazione totale per cui senza giornali, senza partiti, senza
sindacati, senza nessun corpo intermedio si avvicini il cittadino alla gestione
della cosa pubblica.
Ecco,
questa credo sia una terribile menzogna. Una menzogna tipica della nostra
epoca, di cui si fanno in parte portavoce anche i due Matteo che dominano lo
scenario politico italiano attuale. Ma che nella teorizzazione di Casaleggio ha
raggiunto il suo apice. Il che non significa che la partecipazione online sia
il male assoluto, e che forme di democrazia digitale non debbano essere
sperimentate. Al contrario. È che farne il fantoccio sempre salvifico
ipotizzato dal guru dei Cinque Stelle nuoce terribilmente a chi voglia
spendersi davvero per entrambe queste più che legittime istanze. E pensare che
la crisi sia dovuta a un allontanamento da quell’idea, e non dalla sua conferma
nello stravolgimento imposto dalla prassi, giorno dopo giorno, non aiuterà a
produrre progetti meno litigiosi e non retti, in ultima analisi, da qualche
altra non-leadership.
Se
davvero il movimento deve rompersi – e sarebbe una cattiva notizia, dato che si
parla comunque della principale forza di opposizione in un Paese in cui
l’opposizione è già debolissima – e se lo deve fare perché non è stato in grado
di metabolizzare e affrontare le critiche di merito che gli sono state mosse
sul suo ideale di fondo in questi ultimi due anni, chi al suo interno ha e
aveva a cuore che Internet significhi più democrazia provi almeno a pensare
davvero se quella era la strada giusta per cercare di dimostrarlo.
La
storia recente del movimento dovrebbe portare consiglio: quello che serve alla
democrazia su Internet non è un “ritorno
alle origini” del M5S, ma più democrazia di quella garantita
dall’idea di democrazia di Casaleggio.
mader
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