venerdì 28 novembre 2014

LA DEMOCRAZIA DIGITALE DI CASALEGGIO È GIÀ FINITA



È paradossale, dato che si tratta del lancio di una consultazione online. Ma con il Comunicato Politico numero 55 Beppe Grillo certifica, più che la sua abdicazione o quasi dal MoVimento 5 Stelle (“sono stanchino”), il fallimento dell’idea di democrazia digitale di Gianroberto Casaleggio. È quella “l’idea originaria” del movimento che in queste ore tanti attivisti, delusi dall’espulsione di Paola Pinna e Massimo Artini, sostengono di voler difendere.

Il problema è che quell’idea, la “iperdemocrazia“, non poteva funzionare. E non ha funzionato. Nella sua versione più pura, quella teorizzata da Casaleggio appunto, significava la realizzazione pratica e concreta dell’uno vale uno: c’è 1) un insieme di cittadini – idealmente l’intera popolazione votante (la traduzione corretta, credo, dei proclami di Grillo di volere il 100% dei consensi); 2) una piattaforma informatica su cui metterli in discussione, a partire dalla votazione degli eletti; 3) un gruppo di eletti, che non sarebbero tuttavia che portavoce della volontà degli elettori, espressa in rete e per loro vincolante (“terminali della Rete“); 4) una diarchia di “non-leader”, a garanzia del rispetto delle regole minime stabilite da un “non-statuto” – pena l’espulsione. Nessuna differenza gerarchica: il voto di un militante e di Grillo dovrebbero avere lo stesso peso.

Dovrebbero. Nella prassi è andata diversamente, ma il punto è che non si capisce come avrebbe potuto essere altrimenti. Come, in altre parole, invece della realtà quotidiana del compromesso con un sistema di democrazia rappresentativa avrebbe potuto affermarsi quell’utopia slegata da ogni contesto istituzionale – e irrispettosa di ciascuna delle tante critiche che quell’utopia ha già ricevuto nella storia del pensiero politico negli ultimi vent’anni in particolare.

Ora, come da tempo, le polemiche si addensano sul quarto punto: sui margini di discrezionalità riservati in realtà dai non-leader a se stessi nel nome della loro funzione di “garanzia“. Margini che ora vengono in qualche modo ridiscussi: “il M5S ha bisogno di una struttura di rappresentanza più ampia”, scrive Grillo nel comunicato odierno, ammettendo implicitamente – ed è questo un errore comunicativo e politico che rivela tutta la sua confessata stanchezza, forse – che fino a oggi non era nelle mani della rete “sovrana” (cit. Roberta Lombardi), ma nelle sue e in quella di pochi altri.

Insomma, non dovevano esserci livelli intermedi tra cittadini e decisione politica. L’unico mediatore doveva essere “la Rete“. E invece il risultato, nei fatti, è stato che il movimento è stato retto nelle sue linee politiche di fondo da un duo di non-leader, dal loro (misterioso e ripetutamente criticato) staff, da un inner circle di comunicatori di vario tipo – ed è un primo strato. Oggi se ne vorrebbe aggiungere un secondo, di intermediazione tra questa non-leadership e i non-parlamentari (i “cittadini-portavoce”).

A questo servono le cinque persone, i cinque eletti più eletti di altri (dato che li ha scelti Grillo tra i fedelissimi e “la Rete” può solo “certificare” o respingere), che “si incontreranno regolarmente con me per esaminare la situazione generale, condividere le decisioni più urgenti e costruire, con l’aiuto di tutti, il futuro del MoVimento 5 Stelle”. È la chiara ammissione di una sconfitta di metodo. Un metodo che del resto lo stesso Grillo ha violato espellendo Pinna e Artini facendo precedere il voto online a una decisione maggioritaria dei gruppi parlamentari. Eppure non risultano procedure di espulsione per l’ex-comico, che può anzi ribattere chiedendo le modifiche che più gli aggradano al cuore del movimento: le sue regole di convivenza e deliberazione.

Ma il problema non è Grillo: il problema è pensare che un sistema simile possa stare in piedi. Oltre al quarto punto, per restare alla schematizzazione proposta, andrebbero discussi anche gli altri tre. Siamo sicuri che senza questa gestione autoritaria il movimento sarebbe davvero andato diversamente, come sostengono ai quattro venti epurati e critici interni o non più interni del movimento stesso?

Davvero senza la presenza invadente di Grillo oggi questi “ragazzi dal volto buono” sarebbero magicamente in grado di auto-organizzarsi, farsi campagna elettorale, guadagnare consensi significativi, gestire in modo collaborativo progetti di legge e decisioni interne? La storia, litigiosa e piena di scazzi – mi si perdoni, è la parola giusta – dei meetup e dei gruppi locali sembra dire l’esatto contrario. E, lo scrivo dopo aver studiato per due anni piattaforme di partecipazione online, non sono a conoscenza di un software in grado di produrre, da solo, democrazia per un numero di utenti elevato quanto richiesto dal successo del M5S. Anzi, ho finito per convincermi che nessun software possa produrre da solo democrazia, per pochi o per tanti.

Insomma, da un lato è ridicolo pensare – come pare faccia Grillo – che i click sul blog possano misurare lo stato di salute del movimento o dirimere le questioni decisive, e insieme quelle di tutti i giorni, in una democrazia avanzata con sessanta milioni di anime. Ma dall’altro credo sia altrettanto ingenuo pensare che il problema stia nell’esercizio di autorità da parte di Grillo e non nel sistema ipotizzato in sé, nell’idea della disintermediazione totale per cui senza giornali, senza partiti, senza sindacati, senza nessun corpo intermedio si avvicini il cittadino alla gestione della cosa pubblica.

Ecco, questa credo sia una terribile menzogna. Una menzogna tipica della nostra epoca, di cui si fanno in parte portavoce anche i due Matteo che dominano lo scenario politico italiano attuale. Ma che nella teorizzazione di Casaleggio ha raggiunto il suo apice. Il che non significa che la partecipazione online sia il male assoluto, e che forme di democrazia digitale non debbano essere sperimentate. Al contrario. È che farne il fantoccio sempre salvifico ipotizzato dal guru dei Cinque Stelle nuoce terribilmente a chi voglia spendersi davvero per entrambe queste più che legittime istanze. E pensare che la crisi sia dovuta a un allontanamento da quell’idea, e non dalla sua conferma nello stravolgimento imposto dalla prassi, giorno dopo giorno, non aiuterà a produrre progetti meno litigiosi e non retti, in ultima analisi, da qualche altra non-leadership.

Se davvero il movimento deve rompersi – e sarebbe una cattiva notizia, dato che si parla comunque della principale forza di opposizione in un Paese in cui l’opposizione è già debolissima – e se lo deve fare perché non è stato in grado di metabolizzare e affrontare le critiche di merito che gli sono state mosse sul suo ideale di fondo in questi ultimi due anni, chi al suo interno ha e aveva a cuore che Internet significhi più democrazia provi almeno a pensare davvero se quella era la strada giusta per cercare di dimostrarlo.

La storia recente del movimento dovrebbe portare consiglio: quello che serve alla democrazia su Internet non è un “ritorno alle origini” del M5S, ma più democrazia di quella garantita dall’idea di democrazia di Casaleggio.

mader

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