Da tempo non fa
più neanche ridere, Beppe Grillo.
Era un purosangue della satira e si è ridotto a un ronzino della politica. Ha
perso originalità, capacità di stupire. Date un’occhiata ai video dell’ultimo,
tragico show in Sicilia dove spara imbecillità a
raffica sulla mafia e delira intorno a una «morale» smarrita di Cosa nostra.
Parabola triste e discendente la sua, che ormai precipita con la stessa
velocità che ebbe l’ascesa verso il successo.
Guardare i numeri
per credere. Gli ultimi ci arrivano da Reggio Calabria, dove si è appena votato
per l’elezione del sindaco: il candidato dei 5 stelle ha raccolto il 2,49 per
cento. Stesso comune, voti a febbraio 2013 per la Camera: 28,5 per cento.
Europee di maggio 2014: 21,2 per cento, ma già la metà dei suffragi (12.891
contro 24.747). Per non parlare di oggi, con i voti precipitati a 2.381.
Insomma, Grillo s’è mangiato Grillo. Perché è
lui e solo lui l’artefice del disastro
politico del Movimento, senza dimenticare ovviamente le enormi
responsabilità di Gianroberto
Casaleggio. In principio la coppia aveva idealmente armato le
mani dei movimentisti con pennarelli e bombolette spray per dar sfogo alla loro
rabbia: e vai con insulti, liste di proscrizione e minacce di ogni genere (chi
scrive ne sa qualcosa) contro chiunque osasse criticare o fosse individuato
come bersaglio di giornata.
Offese e
avvertimenti rigorosamente anonimi, va da sé, come si faceva sulle pareti dei
cessi nelle aree di servizio prima che la Rete (ah, la libera rete!) venisse
trasformata in un gigantesco murales. Su quel murales oggi non c’è più spazio:
gli imbrattatori si sono pure stufati perché dopo averlo riempito di
«vaffanculo» e di «muori tu e la tua famiglia» che facciamo, signor Grillo,
dispensiamo ancora e solo insulti?
La perdita di consenso è verticale. Passa dalle purghe per chi osa dissentire
all’interno dei pentastellati alla conclamata incapacità di assicurare un
buongoverno lì dove il Movimento è maggioranza. Perfino Fiorella Mannoia,
folgorata dall’avvento dei 5 stelle, invita Grillo a farsi da parte il prima
possibile perché «sembra uno di quei genitori che vanno a vedere le partite di
calcio dei figli e cominciano a urlare e inveire a bordo campo».
Insomma, il pagliaccio della politica si è trasformato in
Pierrot, ne ha seguito
l’involuzione: era scaltro, la doppiezza era la sua caratteristica. Ma oramai
non incanta più, le sue invettive sono diventate noiose malinconie. E l’uomo
che voleva rivoluzionare l’Italia incarna il povero Canio, protagonista dei
Pagliacci di Leoncavallo: gli tocca continuare a recitare («La gente paga e
rider vuole qua») e andare in scena nonostante sappia che il suo popolo lo ha
mollato («Ridi, Pagliaccio, sul tuo amore infranto»). Ma la commedia è finita.
E «Canio» Grillo lo sa bene.
mader
Giorgio Mulè
per Panorama
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